di Marco Grieco
del 30 aprile 2020
Con oltre 26 mila vittime italiane risultate positive al covid-19, tutti noi, più o meno indirettamente, ci siamo confrontati con la morte.
Le immagini delle salme nei cimiteri deserti, le testimonianze del congedo di tanti anziani schermati da un display digitale, ci rivelano una verità semplice: che la morte è unita alla vita, e non esiste vaccino o pseudo-verità che possano separarla. Viene in mente la pagina del diario di Etty Hillesum in cui la scrittrice olandese, commentando la ferocia della Shoah, scriveva: «Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest’ultima» (Etty Hillesum, Diario, 3 luglio 1942). Alla luce degli eventi traumatici che stiamo vivendo, lo psicoanalista e accademico Massimo Recalcati riflette su una nuova presa di consapevolezza. Se è vero che il coronavirus ha trovato un uomo impreparato ad affrontare le sfide, questa potrebbe rivelarsi come l’occasione feconda per ripensare al punto nodale della vocazione umana: la fratellanza, l’unico strumento di difesa della vita contro la morte.
Professore, qual è la lezione principale che ci sta dando il virus?
È una lezione traumatica e dolorosissima. Ma sarebbe ancora più drammatico e doloroso se non riuscissimo a tenere conto di questa lezione, ricominciando a vivere come prima, come se nulla fosse accaduto. Questa lezione riguarda per me due grandi temi. Il primo è quello della libertà. Il covid-19 insegna che quella concezione della libertà che abbiamo coltivato in Occidente negli ultimi decenni, la libertà come proprietà individuale, come arbitrio della volontà, è una concezione vuota e monca. Nessuno può salvarsi da solo, perché la forma eticamente più alta della libertà è la solidarietà. Nel testo biblico c’è un passaggio intenso in Qoèlet dove si dice che se uno cade c’è bisogno di un altro per rialzarsi, se uno cade ed è solo, non può rialzarsi. È la prima lezione tremenda del virus. La seconda riguarda la violenza ecocida dell’uomo. Papa Francesco ci aveva ammoniti nella sua Laudato si’: noi non siamo padroni della natura. L’umanismo non può essere confuso con la furia antropocentrica del dominio dell’uomo sulla natura. Quello che sta accadendo ha come presupposto il superamento di un limite. Abbiamo violentato il nostro pianeta. La violenza dell’epidemia è una violenza di ritorno della nostra stessa violenza.
In passato abbiamo sperimentato forme di iperconnessione a vari livelli. In che modo ci viene offerta l’occasione di ripensare alle nostre relazioni?
Nessuno, appunto, può rialzarsi da solo. La presenza dell’altro non si aggiunge alla mia vita in un secondo tempo, come un’appendice, una aggiunta esteriore appunto. Essere umani significa essere vincolati all’altro sin dal tempo della nostra nascita. Lo diceva bene Telemaco, il figlio di Ulisse, nelle prime pagine dell’Odissea: nessuno può vedere da sé la propria nascita. Il principio fondamentale della libertà è la fratellanza. Ma non una fratellanza di sangue, col più vicino, col familiare, ma la fratellanza con lo sconosciuto. È quello che il virus ha mostrato: lo sconosciuto che incontro camminando per strada è essenziale per la mia stessa vita; i suoi atti sono essenziali ai miei; la mia vita è essenziale per la sua. La difesa della vita dalla morte non può essere l’azione di uno solo, ma può essere solo collettiva, comune, fraterna.
La quarantena ci ha obbligati a riprendere contatto con noi stessi. Come cambierà il rapporto con il nostro io?
Non sempre questo è vero. Non basta essere isolati per essere in contatto con se stessi. In ogni caso la quarantena ci ha obbligati a una prova. Cosa è davvero essenziale per la nostra vita e cosa è inessenziale? Mi auguro che possa cambiare qualcosa nel nostro modo di concepire l’io. Dovremmo abbandonare l’io-dolatria del nostro tempo. L’iocrazia, come direbbe Lacan, non genera mai nulla di buono. È una follia narcisistica. Spero che qualcuno in questa quarantena abbia davvero potuto vedere cosa ci può essere al di là del proprio io. In fondo la privazione stessa della libertà può essere vista come l’affermazione più alta della libertà, come donazione. Il richiamo ai diritti dell’io, alla sua privacy, eccetera, in un tempo emergenziale come questo insiste nel ribadire una concezione solo proprietaria, neoliberale, neolibertina, della libertà. Non si riesce a vedere nella privazione, non tanto un’espiazione sacrificale, ma una donazione senza la quale il male dilagherebbe, i nostri medici e tutto il personale sanitario sarebbero travolti dalla malattia, le nostre comunità sconvolte.
In che modo la pandemia ribalta la nostra semantica del confine?
Gli uomini hanno sempre tracciato confini. Hanno bisogno del sentimento di appartenenza. Negli ultimi tempi però il confine si era trasformato in muraglia, steccato, bastione, porto chiuso. La minaccia era incarnata dal migrante, dallo straniero. E la tentazione del muro rispondeva a questa minaccia assicurando protezione. Ora il virus ha sbaragliato questo modo di concepire il nostro rapporto con lo straniero. Il virus è uno straniero che è in mezzo a noi, si infiltra nell’amico, nel familiare, nel nostro stesso corpo. La semantica del confine deve essere allora ridisegnata. La tentazione del muro non è più sufficiente. Deve essere superata. Noi siamo obbligati a convivere con lo straniero. Altra tremendissima lezione.
Quali responsabilità dovremmo assumerci nella costruzione del mondo post-pandemia?
Non possiamo continuare a vivere come abbiamo vissuto. In rapporto alla natura innanzitutto. Ma anche nelle nostre comunità. Dovevamo fermarci per disintossicarci. Certo, sarebbe stato meglio non così, non per questo virus, non a causa di tutto questo male, di tutto questo dolore. Il post pandemia non sarà però il post-trauma. Ci sarà un traumatismo anche della ripartenza perché non ritroveremo più il mondo come l’abbiamo conosciuto. Dovremmo ricostruire un mondo. Siamo un po’ nella posizione in cui si trovò Noè dopo la devastazione del diluvio. Il mio augurio è che prevalga lo spirito del piantare la vigna piuttosto che quello della lotta senza tregua tra gli uomini.
Quale futuro lei immagina, dunque?
Appunto: le conseguenze socialmente drammatiche di questa pandemia esporranno i soggetti più fragili e vulnerabili a una condizione disperata di bisogno. Penso che le istituzioni debbano non lasciare nessuno nell’abbandono. Potremmo diventare anche peggio di quello che eravamo: rabbia, disperazione, violenza, fobia sociale. Ma è possibile che la potenza negativa di questo trauma stimoli invece una risposta positiva altrettanto potente. Bisogna liberare le nostre energie migliori per immaginare il mondo in modo nuovo. La de-burocratizzazione non è più solo una esigenza tecnica ma dovrebbe diventare una postura mentale inedita. Mettere in moto la forza generativa del desiderio, piantare una moltitudine di vigne.