Fratel Enzo Biemmi alla Vita Consacrata

Fratel Enzo Biemmi alla celebrazione della giornata della Vita Consacrata 
Basilica di San Zeno - Verona, 2 febbraio 2015

2 febbraio 2015 San ZenoLa vita consacrata, una profezia nel segno della debolezza
fr Enzo Biemmi

La liturgia che stiamo vivendo ci fa ripercorrere la storia di ogni credente. Questa storia ha un inizio: «Dio ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue»; ha un centro, la Parola, che come spada a due tagli rimprovera per averlo dimenticato e rimette in cammino; ha un punto di arrivo, la vita vissuta secondo la grazia ricevuta. Il battistero, l’ambone e la piazza sono i tre luoghi nei quali la fede ha il suo inizio, la sua costante ripresa, il suo frutto. Ogni credente è chiamato a percorrere questo cammino nella forma che lo Spirito gli concede per dono. La forma che lo Spirito concede alla vita consacrata ci viene ricordata in questa celebrazione con una parola: “profezia”. «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino».

Siamo chiamati ad essere profeti. In modo paradossale, questa liturgia ci fa arrossire per quello che non siamo capaci di essere e nello stesso tempo ci assicura che lo siamo e ci rende capaci di diventarlo. Ma quale profezia siamo chiamati a vivere?

- Dobbiamo essere grati a Papa Francesco perché nella sua lettera in occasione dell’anno della vita consacrata ha finalmente messo fine a una ambiguità troppo a lungo coltivata: «La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti». La nota che contraddistingue la vita consacrata, la sua specificità non è la radicalità, ma la profezia. Tutti sono stati amati radicalmente da Dio, tutti sono chiamati ad amarlo radicalmente. Chi di noi consacrati oserebbe dire, ad esempio, che le nostre mamme sono state o sono meno radicali dei propri figli o figlie consacrati? Dobbiamo anzi qualche volta vergognarci perché la nostra vita in fondo è più comoda di quella dei nostri papà e delle nostre mamme. La cosa è così evidente che ci chiediamo come abbiamo fatto a definirci o a lasciarci definire per tanto tempo nella linea del ‘più”: più da vicino, più radicalmente, più santamente. Riconosciamolo: anche questa è stata una mancanza di profezia e in questo anno dedicato alla vita consacrata il primo regalo che riceviamo è proprio quello di poterci liberare da ogni retorica sulla vita consacrata come stato di perfezione. Basta che ci guardiamo, che guardiamo le nostre comunità e le nostre Congregazioni. Siamo un inno vivente alla povertà e al limite.

Quale profezia è dunque affidata alla vita consacrata? Per quale mancanza di profezia viene essa rimproverata dalla Parola che abbiamo ascoltato? Quale forma di profezia è essa chiamata a vivere a favore di tutti, nelle piazze della vita umana?

- Non è nella linea del ‘più” che siamo chiamati a essere profeti, ma in quella del ‘meno’. Se il matrimonio e l’ordine sono dei sacramenti, la professione dei voti non è un sacramento. Anche così è detto che la vita consacrata non è un più, ma un’ulteriore povertà da scegliere e vivere ogni giorno, nella linea della kenosi. Rinunciamo dunque a proporci come modelli. È una rinuncia che facciamo volentieri, perché metterebbe sulle nostre spalle un peso che non sappiamo portare. E dobbiamo anche non permettere che la Chiesa ci identifichi come modelli, peraltro senza crederci veramente. L’anno della vita consacrata è certo un tempo di grazia, ma è anche un percorso con qualche trappola. La più evidente è quella della panna montata, quella cioè di stare al gioco di celebrazioni che ci imprigionano in una immagine eroica di vita cristiana, o peggio di farci da noi una specie di training autogeno per convincerci che dobbiamo essere il modello per gli altri. Non è di questa profezia che la Chiesa e il mondo hanno bisogno. A questo proposito ci possiamo chiedere che cosa è venuto in mente a Papa Francesco, con tutti i problemi che ci sono oggi del mondo, di fare di questo anno l’anno della vita consacrata. Certamente molti se lo sono chiesti: non si poteva trovare un tema più urgente, più attuale e più utile? Papa Francesco conosce bene i grandi problemi degli uomini e delle donne di oggi, e per questo ha dedicato questo anno alla vita consacrata, perché il mondo manca di profezia e solo la profezia può aiutarci a assumere e vivere i problemi del mondo. Ma la domanda torna, quale profezia?

- E’ una profezia sostenibile che il mondo ha bisogno di vedere in noi. «La profezia non è altro che la capacità di inglobare la morte, il fallimento, l’inevidenza, la marginalità e di farlo come scelta durevole per tutta la vita… La profezia della vita consacrata si identifica per questo in massima parte con il proprio combattimento spirituale, nella coscienza dei propri limiti… non è di essere ‘diversi’ e ‘a parte’… ma di essere persone solidali, capaci di condividere la fatica di vivere che tocca, talora in modo drammatico, l’esistenza di tutti gli uomini e le donne. Il servizio sui sono chiamati i consacrati non è di essere modelli di vita impeccabile, ma, come spesso ricorda Papa Francesco, di essere e diventare sempre di più ‘peccatori perdonati’, capaci di animare la speranza, di tutti e di ciascuno, di poter sperimentare nella propria vita questa stessa grazia di misericordia» (Fratel MichaelDavide Non perfetti, ma felici. Per una profezia sostenibile della vita consacrata, EDB 2015). La profezia è di mostrare a tutti che l’amore di Dio ci permette di vivere nel limite e nella povertà esistenziale e anche spirituale in modo dichiarato e sereno.

La Chiesa è un ospedale da campo. Ma è anche la malata del suo stesso ospedale. È perché siamo malati continuamente guariti che siamo in grado di comprendere e curare le ferite degli altri.

Paolo, «irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla legge» (Filip. 3,6) a più riprese ha chiesto di essere riscattato dal suo limite. Nel suo singolare dialogo con Dio la risposta è stata «Ti basta la mia grazia» e la sua profezia è divenuta questa: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).

Questa umile profezia è quella che le nostre povere spalle possono reggere ed è una profezia comprensibile e sostenibile per tutti. Se Dio ha scelto noi come profeti, come potrà non amare gli altri?

L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Vita consecrata riassumeva in una felice sintesi l’identità della vita consacrata: confessio Trinitatis, signum fraternitatis, servitium caritatis. Ad ognuno di questi tre livelli va vissuta la nostra profezia nel segno non della perfezione ma della povertà accolta nella misericordia di Dio.

Siamo chiamati, ad esempio, a vedere l’azione di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo in tutte le persone, anche in quelle che stanno facendo e si stanno facendo del male, in quelle che non credono o credono differentemente da noi. Siamo chiamati a essere profeti confessando la Trinità in ogni persona e facendo leva su questa porzione che c’è in ogni cuore, vedendola e promuovendola.

Siamo chiamati, ad esempio, a essere segno di fraternità stando insieme non a partire da ciò che ci unisce e ci rende uguali, ma mostrando che il Vangelo ci permette di stare insieme, di sopportarci e persino di apprezzarci a partire dalle nostre distanze. Che profezia sarebbe oggi quella che segnalasse la comunione del paradiso terrestre? È invece profezia poter dire che ci è concesso di vivere insieme da diversi.

Siamo chiamati, ad esempio, a quel servizio della carità che consiste nel toglierci i calzari di fronte all’unico terreno sacro che esiste, l’uomo, in particolare l’uomo ferito, sofferente, emarginato, colpito e derubato come l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico.

Alcune comunità religiose sono nate per assicurare nella Chiesa l’adorazione eucaristica perpetua. Tutte le persone consacrate sono chiamate a quell’altra adorazione perpetua, quella dell’umanità divenuta tabernacolo di Dio. Sempre in ginocchio davanti a Dio e sempre in ginocchio davanti all’uomo: ecco a cosa siamo chiamati.

Non preghiamo dunque, in questa celebrazione, per diventare più religiosi, ma semplicemente più umani, fratelli e sorelle universali in Cristo Gesù e per la grazia dello Spirito.

Ormai non possiamo più trovare bassa questa esistenza terrena che Dio ha reso bella, santa, e sacra vivendo 33 anni sulla terra; e la terra… non è più un esilio tenebroso e triste, ma dolce, benedetto e luminoso poiché il nostro Dio è con noi, e anche certamente, anche completamente vicino a noi e di fronte a noi come Egli lo sarà nel cielo…

[1] Commento a Mt 1,17, in C. de Foucauld, Commentaire de saint Matthieu, Nouvelle Cité, Paris 1989, 41.