Trovare nuovi modi per farci prossimi

Cittadini e credenti di fronte a questo tempo e a quello che verrà

Osservatore Romano, 27 marzo 2020

L’emergenza che stiamo vivendo in queste settimane costringe la nostra società a inediti e repentini mutamenti. Le strade e le piazze piene di gente e luci del nostro quotidiano sono divenute buie e deserte. Il mondo è cambiato nel giro di pochissimi giorni e abbiamo ormai compreso che chiunque non abbia mai indossato una mascherina sarà costretto, prima o poi, a farlo, ovunque. Come affrontare, da cittadini e da credenti, questo tempo, e quello che verrà?

Sperimentiamo turbamento e apprensione, ci confrontiamo con la paura, ma non vogliamo essere sopraffatti da essa. L’impegno e la dedizione degli operatori sanitari che combattono in prima linea la malattia sono il simbolo di una comunità decisa ad aiutare chiunque, in particolare i più deboli e i più vulnerabili. Le tante espressioni di volontariato che restano al fianco di chi è più povero e fragile lo mostrano. I poveri, gli anziani, quanti sono affetti da patologie differenti dal covid-19, le persone con disabilità, i senza dimora, chi è in carcere, vivono oggi con maggiore sofferenza la loro condizione. È compito di ciascuno far sentire loro una vicinanza premurosa e attenta, anche se meno “fisica” che in passato.

Dovremo tutti essere attenti a quanti attorno a noi possono trovarsi in difficoltà, magari perché soli, e avviare una conversazione telefonica, inviare un messaggio, una mail, offrirsi di comprare cibo e medicine. L’epidemia rivela la nostra debolezza. Ma fa pure emergere la nostra forza: un potenziale di relazione, di capacità di cura e di tessitura, da esercitare subito, per evitare a molti di precipitare in un inferno di solitudine, mentre ci si separa per prevenire il contagio. Perché l’inferno — lo cantava anche Dante — può essere anche un luogo freddo, gelido, privo del calore della vita e delle sue interazioni, facili o difficili. Ed è soprattutto la dimensione del “senza”: senza stelle, senza tempo, senza speranza. Senza vita, senza gente, senza incontri, senza abbracci, come avviene in questa stagione che tanti affrontano in solitudine, senza il calore di una famiglia o di relazioni vere.

Nel “deserto” di queste settimane ci rendiamo conto dell’importanza di costruire esistenze con dei legami. Poco ci abbiamo investito in passato. La vita che costruiremo dopo l’epidemia dovrà avere più legami, essere densamente popolata di gente, di incontri, di abbracci. «Ogni persona è chiamata a riscoprire cosa conta veramente, di cosa ha veramente bisogno, cosa fa vivere bene e, nello stesso tempo, cosa sia secondario, e di cosa si possa tranquillamente fare a meno», ha detto Papa Francesco nell’udienza dell’11 marzo. La prova che stiamo vivendo avrà almeno il pregio di far crescere in tutti lo spazio dell’interiorità, aiutando a maturare la coscienza che della solitudine si può fare a meno, e che vivere bene significa costruire una rete di contatti e di relazioni. È proprio questo che oggi ci manca, in fondo. «Non è buono che l’uomo sia solo», dice il Creatore nella Genesi: è la comunione dell’amicizia e del legame il bisogno più profondo dell’uomo. «La malattia isola e per vincerla dobbiamo isolarci. Ma sappiamo che non siamo, non possiamo essere delle isole», ha affermato il cardinale Matteo Zuppi in una recente intervista. E così continuava: «L’assenza ci fa capire l’importanza della presenza. È la dimostrazione che non siamo fatti per vivere isolati. [...] È come un digiuno non voluto, non scelto, che ci aiuta però a dare un senso a tutto». Questo digiuno rafforzi le nostre difese immunitarie contro le tentazioni della solitudine. Ci aiuti ad innalzarle contro il virus dell’autosufficienza. Per salvarci da un isolamento autoindotto, nonché per riempire quello che il Papa ha definito in un’omelia in streaming «l’abisso dell’indifferenza», l’abisso che separa i pochi ricchi epuloni dai tanti Lazzaro di questo mondo.

Quando questi lunghi giorni di autoisolamento saranno conclusi, e usciremo di nuovo dalle nostre case, impegniamoci ad avere un cuore più aperto al grido dell’altro, e impariamo a provare maggiore vergogna quando si invoca la costruzione di muri sempre più alti. La pandemia ci mostra, paradossalmente, che siamo tutti legati. E che solo con uno sforzo comune, di tutti, ne usciremo. Il mondo è interdipendente e i problemi lontani vanno affrontati con lo stesso atteggiamento e la stessa cura di quelli vicini, preoccupandosi della salute e della salvezza di tutti.

Questo, del resto, stiamo facendo obbedendo all’indicazione di restare in casa. Un impegno in favore della comunità, perché un anziano non rischi più del dovuto, perché il sistema sanitario non giunga al punto di rottura. «Qui, o ci salviamo tutti assieme, o non si salva nessuno», ha detto un giovane insegnante del sud, al nord per lavoro, che non ha voluto mettere a rischio familiari, amici e conterranei, e ha scelto di non partire. Lo stesso vale a livello globale: la pandemia ci insegna che la salvezza si trova tutti insieme.

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità», aveva detto il Papa nella lunga intervista concessa a «La Civiltà Cattolica» nell’agosto del 2013, quando aveva definito la Chiesa un «ospedale da campo dopo una battaglia», espressione che fece discutere ma che, a rileggerla oggi, tanto fa pensare.

Il vescovo di Roma coglieva il cuore dell’essere cristiani in ogni tempo, in ogni contesto in cui si cerca di mettere in pratica la fede. «Vicinanza, prossimità»: oggi potremmo parlare di socialità. Cosa ne è della socialità, in un tempo di distanziamento sociale? Essa è sfidata e limitata, per il bene stesso delle persone che vorrebbero viverla. Ma anche quando questa battaglia sarà vinta, ci sarà bisogno di un “ospedale da campo”, prezioso quanto le terapie intensive di questi giorni, in grado di restituire quel respiro di prossimità che il virus ha negato a una Quaresima mai così eccezionale e forse — chi può dirlo oggi? — ad altre stagioni del prossimo futuro.

Sono quindi convinto — per rispondere alla domanda iniziale — che questo tempo ci chiede di trovare nuovi modi per farci prossimi. Con intelligenza e creatività lo si può essere anche a distanza e scoprire chi è il nostro prossimo, oggi, in particolare i più deboli, ma anche chi soffre lontano da noi per la guerra o la fame, situazioni che sembrano ancora più lontane in questo tempo. Se crediamo che “andrà tutto bene”, come si legge nei mille messaggi scambiati in queste ore, dobbiamo anche puntare a uscire migliori da questa prova, più consapevoli del tesoro di relazioni e di “reti” di cui abbiamo estremo bisogno. Si apriranno allora le porte incolpevolmente chiuse di oggi, e cadranno i muri colpevolmente eretti ieri, che ci hanno illuso, ma non ci hanno protetto. Perché se siamo tutti sulla stessa barca — come ha scritto un noto giornalista — è bene che i porti siano aperti per tutti.

di Marco Impagliazzo